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2019 Non Dimenticarmi

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Non Dimenticarmi

In occasione del cinquantenario della strage di Piazza Fontana a Milano Ferruccio Ascari ha progettato Non Dimenticarmi una scultura pubblica in memoria della ‘strategia, della tensione’ la serie di stragi che hanno insanguinato l’italia dal 1969 al 1980. Il tema della memoria, intesa come processo di ricostruzione del passato che si proietta nel presente, è sotteso a quest’opera che l’autore dichiara di aver concepito non come un monumento commemorativo, ma come “un dispositivo per attivare la memoria collettiva, uno strumento per contrastare la forza dissolutrice dell’oblio”.

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2018 Mantra

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Mantra

Ferruccio Ascari torna qui ad utilizzare la tecnica dell’affresco riportato su tela, caratteristica dei suoi lavori di pittura. Con un elemento di novità: il segno di scrittura, in precedenza episodico all’interno della tessitura delle sue opere, diviene protagonista assoluto di questo lavoro che è anche un testo.

show more

La gamma cromatica si riduce a due soli colori, il verde scurissimo, quasi nero, del fondo e l’oro delle parole che compongono il testo che si snoda in ventisette tele disposte in modo non lineare con un andamento che ricorda una partitura musicale. Un testo a prima vista indecifrabile che, come recita il titolo, è il frammento di un mantra appartenente alla tradizione vedica. Un testo che si pone come una soglia da superare, un enigma da sciogliere perché si schiuda il suo contenuto di verità. Mantra s’inscrive in un ciclo di opere, cui l’artista lavora dal 2017. Tutte si situano all’interno di un medesimo orizzonte: una tensione spirituale, un’interrogazione sul senso del nostro stare al mondo in una fase storica di radicali trasformazioni. Il senso di queste opere, che fanno riferimento a tradizioni spirituali diverse, sta nella ricerca di un fondamento comune capace di preservarci dall’odio e dall’intolleranza. Il messaggio contenuto in Mantra va in questa direzione, ma non solo. Le scelte formali operate dall’artista sono di per sé una dichiarazione d’intenti: la drastica riduzione degli elementi figurali, il fondo aureo, fanno di quest’opera un oggetto di meditazione in chiave tutta contemporanea, con un implicito rimando – passando per Malevich e il suo Quadrato nero – all’icona, al suo significato teologico oltre che artistico, al suo essere una ’presenza’ e non una semplice rappresentazione.
[BIAS 2018 – Biennale Internazionale di Arte Contemporanea Sacra delle Religioni e Credenze dell’Umanità (Padiglione Filosofico) | MUSEO RISO Cappella dell’Incoronazione, Palermo]

show less

Mantra. Affresco riportato su tela, oro e ferro, 27 tele, 30×40 cm cad., 2018

2017 Rumore

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Rumore
[Video]

I sette minuti di Rumore sono interamente occupati dallo scorrere d’inquadrature che mostrano un uomo scalzo che cammina senza fermarsi mai nel centro di Milano. Questo flusso d’immagini è però costantemente ‘disturbato’ dal sovrapporsi di altre immagini, un secondo film che irrompe nel primo, come elemento di discontinuità, per tagli imprevisti e molesti:[read more=”Read More”less=”Read Less”]immagini-lampo di poveri cristi, di senzatetto, di mendicanti. Una realtà parallela di emarginazione rivelata senza alcun filtro da sonorità urbane crude, aggressive. L’ininterrotto procedere tra la folla del protagonista è invece accompagnato da  una traccia sonora estraniante  tratta da ‘Vibractions’, un’installazione sonora dell’artista del ’78. Del protagonista non vediamo mai il volto. Nel suo peregrinare l’uomo entra in tre chiese: con lui entra il rumore del mondo. Ogni volta qualcuno, disturbato nel suo raccoglimento, lo zittisce. Costretto ad uscire, torna nel mondo il cui rumore lo segue come un carico che  si porta addosso. L’ultima scena lo mostra mentre s’allontana e svanisce in cielo. La sua identità non viene svelata.  L’intera struttura del video si sviluppa come un’investigazione  su di uno sconosciuto, il cui peregrinare nel centro di una Milano affollata di gente, in giro per negozi, ciascuno con il suo cellulare pronto a fotografare e fotografarsi è un elemento perturbante. La ‘richiesta di senso’ che Rumore pone è incalzante, costringe a riflettere. Quegli squarci su di un mondo di emarginati turbano la nostra quotidianità, gettano una luce cruda su di una realtà che non può essere taciuta.[/read]

Rumore, 8’03”, 2017
Rumore, 8’03”, 2017 (teaser 0’26”)

2017 Silenzio, Amen, Logos

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Silenzio
Amen
Logos

Silenzio, Amen e Logos sono le tre opere collocate nella navata centrale  della Rettoria di San Raffaele a Milano nel corso della personale “Silenzio” (1) di Ferruccio Ascari articolata contemporaneamente in altre due sedi della città, straordinarie per valore storico e artistico: il Chiostro piccolo della Basilica di San Simpliciano, dove si trovava l’installazione Luogo Presunto, e San Bernardino alle Ossa con Ex Voto I, II, III e Rumore

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Silenzio –
un grande telo di lino sospeso all’inizio della navata centrale recante al centro, ricamata in oro, questa parola – è il primo lavoro che s’incontrava una volta entrati in San Raffaele. A proposito di quest’opera Ferruccio Ascari affermava: “Più che essere il titolo dell’opera, Silenzio ‘è’ l’opera stessa. Qui titolo e opera coincidono. ‘Silenzio’ dice quello che dice, ma non in senso tautologico. Rispetto a questo monito la mia intenzione era quella di amplificarne quel ‘risuonar dentro’ di cui ti parlavo prima. Mi piaceva l’idea che la scritta fosse piccola al centro di un grande campo neutro in cui potesse riverberare…”.
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In alto, sospesa al di sopra dei gradini che portano all’altare, era collocata Amen, un trittico la cui superficie è interamente occupata dalla parola “amen” nella sua lingua originale, l’ebraico. In questa scelta di lavorare sulla parola, sulla scrittura piuttosto che non sull’immagine, si può scorgere un’allusione alla “irrapresentabilità” del divino. La tecnica dell’affresco riportato su tela che caratterizza le opere di pittura di Ascari si coniuga  qui con quella del fondo d’oro: un chiaro rimando alla grande tradizione delle pittura italiana duecentesca, ma anche all’icona e al suo significato teologico oltre che artistico. Come accadrà in Mantra, le scelte formali operate dall’artista sono di per sé una dichiarazione d’intenti: la drastica riduzione degli elementi figurali, il fondo aureo, fanno di quest’opera un oggetto di meditazione in chiave tutta contemporanea, con un implicito rimando – passando per Malevich e il suo Quadrato nero – all’icona, al suo significato teologico oltre che artistico, al suo essere una ’presenza’ e non una semplice rappresentazione.
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Logos
, un uovo ligneo ricoperto di foglia d’oro, è stato collocato dall’artista all’interno del ciborio, sopra l’altare, nel luogo più sacro della chiesa. Quest’opera segnava il punto terminale di una fuga prospettica che prendeva inizio con Silenzio e proseguiva con Amen: un percorso ascensionale non solo di carattere visivo, ma anche interiore, di cui queste tre opere costituivano le stazioni. A proposito di quest’opera l’artista dichiarava: “Di solito al titolo comincio a pensare quando un’opera è finita, questa volta invece la parola veniva prima della cosa ed era una parola che veniva sul filo della memoria: ‘In principio era il Logos e il Logos era presso Dio e il Logos era Dio…’ (Giovanni,1,1-5). Giovanni continua: ‘Tutto è venuto ad essere per mezzo di Lui… In Lui era la vita e la vita era la luce…’ ecco, l’idea dell’uovo aureo mi viene innanzitutto da quelle parole… Ho pensato all’uovo come simbolo della più importante fra le solennità cristiane, la Resurrezione, ma non soltanto a questo. L’uovo mi è apparso certo come ‘rinascita’, ma ancor prima come ‘nascita’, come nascita del tutto, come uovo cosmogonico”.
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(1) A proposito di questa mostra in un’intervista rilasciata in quell’occasione Ferruccio Ascari dichiarava: “Il rapporto tra l’opera e lo spazio in cui è collocata è sempre stato un elemento centrale del mio lavoro già a partire dalle installazioni ambientali che ho realizzato dalla metà degli anni ‘70 in poi: in molte di esse il luogo rappresenta un aspetto fondamentale dell’opera. Tanto più in questo caso. Qui non si tratta infatti di spazi espositivi, ma di luoghi che per me rappresentano l’occasione per uno speciale percorso interiore oltre che estetico. Per il visitatore questo percorso dovrebbe trasformarsi in un’esperienza… Il titolo (della mostra, n.d.r.) ‘Silenzio’, suggerisce la necessità di una condizione particolare, la necessità di quel ‘mettersi in ascolto’ che è la condizione senza la quale le cose non possono parlare al cuore, svelare il loro significato riposto. Ho cominciato a fare pratica sistematica di silenzio in India dove per diversi anni mi sono recato per studio. In India questa pratica è chiamata ‘mauna’ ed è un elemento importante di alcuni percorsi di conoscenza. Ad ogni modo quella del silenzio è una pratica che si ritrova in tutte le grandi tradizioni…”.

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Silenzio. Tela di lino e oro, circa 140×140 cm, 2017 [Chiesa di S. Raffaele, Milano]
Amen. Affresco riportato su tela, 90×40 cm, 2017 [Chiesa di S. Raffaele, Milano]
Logos. Uovo ligneo ricoperto di foglia d’oro, circa 10x10x20 cm, 2017 [Chiesa di S. Raffaele, Milano]

2017 Luogo Presunto

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Luogo
Presunto

Con quest’installazione composta di una serie di esili sculture in filo di ferro e collocata al centro dello spazio a cielo aperto del chiostro della Basilica di San Simpliciano Iniziava ‘ Silenzio’, una mostra concepita dall’artista come un percorso che si snodava nel centro di Milano attraversando altri due luoghi di intensa spiritualità, la Rettoria di San Raffaele e la cappella di San Bernardino alle Ossa.[read more=”Read More”less=”Read Less”]Gli elementi dell’installazione, architetture fragili, filiformi, si disponevano nello spazio senza un ordine apparente e sembravano rispondere ad un puro impulso di espansione: “Archetipi di edifici di incerta stabilità, che hanno un rapporto precario con il suolo, che da un momento all’altro potrebbero prendere il volo. Casa tra terra e cielo. Rifugio sospeso, ad evitare il contatto, a proteggere forse più della costruzione solida, fondata, ben piantata in terra” così l’artista a proposito di questo suo lavoro. Il titolo, Luogo Presunto, una citazione tratta da Borges, indica in effetti un luogo immaginario, di cui non è certa l’esistenza, che ha la stessa consistenza di un miraggio, di un sogno.[/read]

Luogo presunto. Installazione ambientale, ferro, dimensioni variabili, 2017

2017 Ex Voto

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Ex voto

Ex-voto 1, Ex-voto 2, Ex-voto 3, le tre opere presenti in San Bernardino alle Ossa nel corso della personale di Ferruccio Ascari ‘Silenzio’, rimandano agli autentici ex-voto che ricoprono le pareti del corridoio antistante l’Ossario. Qui, volutamente, la scelta dell’artista è stata quella di collocare opere dalla ‘voce sommessa’ che si integrano con questo luogo ‘speciale’ per continuità,[read more=”Read More”less=”Read Less”]evitando di sovrapporsi alla suggestione che da esso emana. Con gli autentici ex voto le tre opere intessono un dialogo che suggerisce una riflessione sulla somiglianza, ma anche sulla differenza: al di là di un certo rimando formale con quei manufatti, che altro non pretendono di essere se non segni di devozione per grazia ricevuta, queste tre opere si situano in un diverso orizzonte, quello dell’arte che è interrogazione, ricerca di senso così come creazione di uno spazio ulteriore rispetto alla quotidianità dell’esistenza.[/read]

Ex Voto I. Carta alcantara traforata, circa 40×48 cm, 2017 
Ex Voto II. Lastra di grafite traforata, circa 17×28 cm, 2017 

Ex Voto III. Lamina di gomma traforata, circa 38×58 cm, 2017 

2015 Impermanenza Video

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Impermanenza
[Video]

All’origine del video ‘Impermanenza’ c’è un precedente lavoro, un’installazione del 2014 dal medesimo titolo: tre torri costruite con centinaia di rami di misura decrescente.[read more=”Read More”less=”Read Less”]Anche in questo video gli elementi di cui le tre architetture sono costituite escono dalla fissità dell’installazione, assumono vita autonoma, trovano una loro voce: la voce dei singoli pezzi di legno. Il loro differente peso, la loro differente densità, il diverso impatto con il suolo nell’istante del crollo fornisce il materiale per la traccia sonora che rappresenta un aspetto fondamentale di questo videowork.[/read]

Impermanenza e dintorni: Elena Scardanelli intervista Ferruccio Ascari[read more=”Read More”less=”Read Less”]
All’interno di Restless Matter, in un processo di continua trasmutazione che mi pare molto coerente con il senso che io intravedo in tutto il progetto, Impermanenza si trasforma in un video, anzi in qualcosa di ulteriore: un video che è anche un gioco, un gioco elementare, ma non superficiale che è quello di trasformare lo spettatore in giocatore sollecitandolo a far crollare le torri muovendo il mouse: qual è la posta in gioco?
Del video-gioco preferirei parlare dopo, ci sto ancora lavorando, posso intanto dirti qualcosa sul video: Impermanenza-video prende avvio da una tentazione, quella di uscire dalla fissità dell’installazione ambientale per entrare all’interno di una realtà immaginale del tutto differente, quella del cinema. Pur partendo da un identico soggetto, le due vie, parlando linguaggi diversi, si biforcano. L’installazione con tutta la sua precarietà, evoca un tempo invisibile, quello della avvenuta costruzione delle torri e dei crolli passati, testimoniati dai legni disseminati per terra; nel contempo emana ansietà per il ‘non ancora’, per un possibile ulteriore crollo, per un’imminente rovina. L’installazione ambientale è come sospesa tra un passato e un futuro, entrambi invisibili eppure, proprio per questo, capaci di farsi ‘presente’. Il filmato ostenta invece un presente continuo, del tutto illusorio, ma continuamente riproducibile. Mi spiego meglio: Impermanenza-video si compone di un numero di fotografie equivalente al numero dei legni che compongono le torri; ciascuna foto registra il progressivo innalzarsi delle torri, legno dopo legno; le mani che nella realtà li muovono – come accade in ogni stop-motion – non vengono mai ritratte. Sarà l’animazione delle foto a prestare alle torri un’autonomia che altrimenti non avrebbero mai posseduto: nel filmato le torri crescono (e de-crescono) come mosse da una loro propria volontà. L’installazione ambientale, offrendosi in tutta la sua precarietà, credo riesca a suggerire l’illusorietà di ciò che chiamiamo ‘reale’, il filmato, dichiarando fin dal primo fotogramma tutta la sua finzione, inventa – proprio attraverso l’illusione di movimento – una ‘sua realtà’ e chiede a chi guarda la complicità necessaria per entrare in quella illusione di secondo grado che è il cinema. Personalmente penso al film d’animazione come alla forma più originaria di cinema, comunque a quella che che più si dimostra capace di significare ciò che mi sta a cuore.
Quello del video-gioco è un linguaggio che mi sta interessando molto perché illusione e complicità qui si elevano all’ennesima potenza. Mi chiedi della posta in gioco: se l’illusione cinematografica è illusione di secondo grado rispetto a ciò che chiamiamo ‘vita’ e se l’illusione di ‘vita’ nell’interazione del video-gioco è ancora superiore all’illusione cinematografica, allora il giocatore nel video-gioco paradossalmente rischia più della vita.
Il suono è un altro elemento Importante di questo video. Non è qualcosa di estraneo alla natura degli elementi che compongono le torri. Anzi, proprio la loro voce fornisce il materiale per la composizione: è la voce dei singoli pezzi di legno con il loro differente peso, con la loro differente densità e il diverso impatto con il suolo nell’istante della caduta. Mi vuoi dire qualcosa in merito?
Come saprai, fin dai miei primi esordi artistici, quello del suono è stato uno degli elementi che più hanno contato nella mia ricerca. In questo lavoro per campionare la ‘voce’ di ogni singolo legno mi sono fatto aiutare da Nicola Ratti. Nicola ha eseguito queste registrazioni con la sensibilità che solo un musicista della sua vaglia può avere. Una volta attribuito ad ogni fotogramma il suono corrispondente a ciascun legno, montare il filmato è risultato essere come suonare uno strumento, come comporre sonorità attraverso il progressivo comporsi delle sequenze visive: un gioco assai catturante che riprenderò in un prossimo video, La freccia che colpisce il bersaglio vola per sempre.[/read]

Impermanenza. 01’37”, 2015 (teaser 0’50”)

Impermanenza, Backstage, 01’25”, 2015
Il video ripercorre, per brevissime sequenze, le diverse fasi di elaborazione di ‘Impermanenza’, dalla sua nascita nella casa di campagna di Ferruccio Ascari, all’installazione al Museo Tornielli – dove prima di disallestire viene girato un primo video con il crollo delle tre ‘torri’ – sino alle riprese in stop-motion nello studio dell’artista.

1981 Quiescente Obliqua

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Quiescente
Obliqua

Quiescente Obliqua è stata presentata per la prima volta nell’ambito della rassegna Paesaggio Metropolitano,[read more=”Read More”less=”Read Less”]a cura di Giuseppe Bartolucci, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, nel gennaio del 1981. La partitura sonora, così come quella visiva furono specificamente ideate dall’artista per quello spazio, mentre la coreografia nacque dalla collaborazione con il danzatore Gustavo Frigerio. Elemento fondante dell’opera l’interazione tra diverse piani linguistici, attraverso l’attivazione di rapporti tra corpo umano, luce, suono, ambiente. Nel corso della performance lo spazio della scena veniva indagato attraverso un reticolo di segni luminosi: si andava così progressivamente costituendo un ambiente virtuale, una vera architettura luminosa con la quale interagiva il corpo in movimento del danzatore. Ci fu chi, come Nico Garrone a proposito di questo lavoro di Ferruccio Ascari parlò di paesaggio urbano: I tagli luminosi in movimento architettettavano uno spazio tratto simile ai fotodinamismi futuristi o alle scomposizioni animate della Bauhaus (1) e chi, come Franco Cordelli pensò, similmente, a citazioni dall’astrattismo storico da Prampolini e da Atanasio Soldati (2). Attraversando il tracciato costruito dalla luce il corpo del danzatore, sottoposto a continue metamorfosi, compariva e scompariva in un processo di tendenziale assimilazione all’architettura. Giorgio Verzotti, penetrando più a fondo il senso tutto contemporaneo di questo lavoro, scriveva nel saggio di presentazione che la virtualità posta in atto può essere colta nella sua attiva destrutturazione dell’architettura ambientale. L’oscillazione di segni luminosi e la combinazione di essi con la partitura danzata infondono effetti di illusorietà, come illuminazioni che scavano dentro una profondità fittizia. Il concetto, la misura, messi in luce e attivati risultano ineffettuali perché procurano la perdita e il non senso (3). Successivamente ‘Quiescente Obliqua’ è stata riproposta in altre situazioni (4), modificandosi – coerentemente con il proprio assunto di fondo – in relazione allo spazio in cui veniva ospitata, ma nel contempo mantenendo fermo l’assetto concettuale da cui era scaturita.
NOTE
1) Nico Garrone, La Repubblica, 24 gennaio, 1981
2) Franco Cordelli, Paese Sera, 27 gennaio, 1981
3) Giorgio Verzotti, “ Paesaggio metropolitano”, AA. VV. Feltrinelli
4) Martinafranca,  Incontri di Martina Franca’81, 1981; Lione, IV Symposium International d’Art Performance, 1982; Volterra, Pinacoteca Museo Civico, 1983.

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Ferruccio Ascari. Quiescente Obliqua.
di Giorgio Verzotti.
Paesaggio Metropolitano. AA. VV. Feltrinelli 1982
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Alle più recenti esperienze artistiche è possibile assegnare lo spazio urbano quale rappresentazione precipua. La metropoli (quella reale e con tutta evidenza quella che l’epoca sogna) non è solo uno spazio fisico dove di un vissuto si danno connotazioni in senso forte, è ancheuno spazio della teoria, una metafora che adombra, dopo la dialettica, il dissolvimento del soggetto.
Con ciò, la metropoli è il luogo emblematico di una perdita definitiva, quella della legittimazione da parte di ogni discorso concernente il fondamento.
Sarà pertanto possibile parlare di questo luogo come di una “scena”. Nella scena esiste parificazione e non cotrapposizione, e inoltre libertà di innesto di giochi linguistici. Alcuni contributi teorici (non ultime per noi, le letture del “ post-moderno” effettuate da Maurizio Ferraris alla luce di una teoria del simulacro in Deleuze) tendono a definire il nostro orizzonte operativo in termini di irrimediabilità da un lato e di apertura estrema dall’altro. Nello spazio urbano l’irrimediabile può diventare l’ansia del teatro, la spettacolarità, una urgenza cutanea che dice il godimento, la violenza, la morte.
Viene in luce una soggettività animosa, una ipotesi esistenziale rischiosa. Ma un luogo della teoria non implica necessariamente il teatro come dimensione differenziata. Il teatro, la scena, sono altre metafore usate per dire del mondo vero diventato favola, di unaintensità di superficie, ubiqua, pluridirezionata.
Il lavoro di Ferruccio Ascari ha finora potuto esplicitare una motivazione diversa rispetto alla pratica della “ Nuova Spettacolarità” tanto solidale, alla lettera, con l’idea così enunciata della metropoli. Questa spettacolarità comporta in fondo un pieno, l’idea della ricomposizione. Assolutamente contemporanea, essa prende alla lettera la cultura, o la decultura, dello spazio urbano e pratica la superficie in quanto territorio del godimento. Impegnata nel “consumo”, twende ad essere effettuale, assegnandosi la vitalità delle derive, anche se fuori da ogni ipotesi di dirompenza. Il lavoro di Ascari condivide la metropoli come coscienza della non più possibile differenziazione, ma non le assegna alcuna effettualità; non è mimetico rispetto alla vitalità di un simile territorio, condivide la scena, il luogo teorico, la possibilità di unpuro sperimentare. Il lavoro non allude al pieno, alla soggettività, al vissuto, sia pure “contemporaneo” e quindi “destrutturato”, ma si interroga sul vuoto, sull’assenza e su ciò che, nella teoria, li pensa e li definisce. Nessun “sogno” compone qui una spettacolarità. E’ da notare, per esempio, che gli strumenti utilizzati da Ascari appartengono alla tecnologia, ma non veicolano un suo immaginario, un’apertura al riconoscimento. La scena del resto non è più leggibile come sintomo; essa non è più motivata da un’istanza esterna a se stessa; elude essa stessa, nel suo darsi, il senso di una tale dialettica.
Così il vuoto non è la vitalità del non essere e chi lo agita non è l’attore, cioè chi pratica una solidarietà con i simulacri. Lo spazio operativo dell’artista è un territoriospecificamente delimitato dove articolare una proposizione logica che esterna e verifica le regole del proprio gioco. Si tratta di indagini dell’ambiente, in cui strumenti e modalità di lavoro appartenenti al patrimonio delle arti visive, e ad un ambito collegabile alle ricerche concettuali, confinanti talvolta con la pura tautologia. La trautologia è lo sperimentare il linguaggio portandolo al suo limite estremo, contiguo al paradosso che ne misura una ineffettualità. Ciò comporta la dimensione dello spazio chiuso, che emblematizza l’ineffettuale, dove di dà implosione e autoreferenzialità, e non aperture verso l’esterno. Si misura così l’ambivalente atteggiamento, di fiducia e sfiducia insieme, che nei confronti del linguaggio esterna un soggetto, definito da nient’altro che dal linguaggio stesso. L’esperienza di chi indaga tale fattore di contraddizione è essa stessa l’esperienza di un limite, quello posto fra presenza e assenza, ed anche la possibilità di attivare il paradosso con l’atto perverso della dispersione e dell’azzeramento. Dispersione di senso, “ azzeramento” del soggetto; lavorare sul limite significa annunciare la critica del linguaggio in quanto potenziale comunicativo.
Il lavoro di Ascari concerne I presupposti classici della rappresentazione, la prospettiva, l’ambito della razionalità, e insieme la scomparsa del soggetto che la legittima.
Lo spazio (reale, operativo) viene dunque analizzato secondo coordinate cartesiane, che ne enunciano una definizione appunto classica, praticata però come fattore, appunto, di contraddizione, o per meglio dire come presupposto già contraddetto. La misurazione stessa, dandosi come virtualità pura, come astrazione, si esplica come limite tra senso e non senso, “ avvicinato” per così dire dalla connessione inestricabile che si attua fra azione e presenza reali e loro doppio virtuale. La compenetrazione fra elementi visivi, sonori, cinetici, in cui si risolve la dimensione concettuale della installazione è elaborata, nella complessità, come inibizione, come fruizione impedita, o come totalità inattingibile di stimoli. Lo spazio inoltre non comporta una fenomenologia, perchè è il soggetto stesso che vi manca.
La pura astrazione è raggiunta in installazioni come Untitled (1977/1978) dove l’artista evidenziava la sezione aurea che definiva la struttura architettonica degli spazi (il settecentesco Collegio Cairoli a Pavia) tendendo corde di pianoforte, variate in lunghezza e spessore a seconda del variare dei rapporti spaziali. Una portata del classico, la misura, è qui puramente visualizzata, non resa operativa, sottolineata per attivazione astratta degli elementi sonori, per apposizione di un’altra virtuale struttura.
Nel caso di lavori come Egitto Egitto! (1979), la modalità privilegiata di ricerca diventa la contiguità, la sottrazione di senso, lo scivolamento reiterato da possibili connotazioni.
I soggetti dell’azione (l’artista stesso e Daniela Cristadoro, non diversamente da quanto avverrà in Quiescente Obliqua per opera del danzatore Gustavo Frigerio) non intervenivano che come elementi della lingua, segni coniugati ad altri segni, inseriti in una comune dinamica di relazioni grammaticali, a volte immagine, a volte schermo/supporto di altre immagini. Ogni elemento visivo veniva inoltre scardinato da una possibile gerarchia e inserito in una immissione circolare di segnali ottenuta proiettando slides e filmati sulle pareti dello spazio da due proiettori su base rotante. Movimento circolare e simultaneità erano fattori tendenti al vuoto, perchè, non lasciandosi percepire, contrddicevano il tempo lineare, la narrazione, l’accumulo.
L’idea del tempo ciclico e del moto perpetuo governa del resto installazioni come Sans Mot Dire (1980). Qui in vdeo-tape registra la ripetizione ossessiva di un evento (una donna emerge dall’acqua di una piscina per subito rituffarsi) mentre una vasca di rame si bilancia sotto il peso dell’acqua proveniente da un rubinetto aperto, rovesciandola ritmicamente a destra e a sinistra. L’economia del tempo produttivo viene compromessa senza rimedio, se alla virtualità pura non si contrappone che il celibato della macchina, il dispositivo “ inutile”.
In Quiescente Obliqua (1981) la virtualità posta in atto può essere colta nella sua attiva destrutturazione dell’architettura ambientale. L’oscillazione di segni luminosi e la combinazione di essi con la partitura danzata e sonora infondono effetti di illusorietà, come illuminazioni che scavano dentro una profondità fittizia. Il “ concetto”, la misura, messi in luce e attivati risultano ineffettuali perchè procurano la perdita e non il senso.
La superficie è il foglio bianco, la neutralità; occorre un territorio neutrale perchè si innesti l’interazione fra differenti strutture linguistiche, per la verifica dei giochi, l’attivazione di rapporti fra corpo umano, luce, suono, ambiente, concorrenti tutti, nella neutralità, a definire una combinatoria peraltro non casuale.
La struttura è stabilita perchè se ne ricerca una definizione classica, impraticabile, ma possibile nel luogo della teoria. La scena non prevede l’aleatorio perchè la proposizione enuncia la regola. Non c’è una identità al centro di questo operare, c’è ai margini, una intensità, che induce la contraddizione. C’è una produzione, perchè è propriamente la mancanza come si può desumere da Derrida, che attiva, che fa funzionare la struttura. L’immagine, nell’ambiguità che reca con sé, è forse il tramite più pertinente al pensiero di ciò che viene definito l’indicibile, il presupposto del discorso. La scena dunque non è che il luogo, o il modo, di questo mostrarsi. Pensare la scena e una possibilità della teoria e, per quanto attiene a una pratica artistica, è la possibilità di una ricerca ineffettuale, interessata al formarsi e al disperdersi dei linguaggi, al luogo della loro origine.
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“Quiescente, Obliqua”: intervista a Ferruccio Ascari di Marco Marcon 1981[read more=”Read More”less=”Read Less”]
La trama di questo tuo lavoro si compone di materiali linguistici di varia natura: figurativi, sonori, di movimento corporeo ecc. Qual è il significato e il valore di questa contaminazione all’interno della tua processualità creativa?
La possibilità per l’artista di porre, ogni qual volta si mette in gioco, la legge che fonda il gioco stesso è anche la possibilità di fare arte entrando in un sistema segnico per passare da una direzione significativa ad un’altra. Quando nel mio lavoro utilizzo, oltre all’immagine, la scrittura, o il suono, o il movimento corporeo, eccetera, faccio questo: mi muovo per più direzioni possibili, ed il cambio di dominante è possibile perché questo gioco ormai non ha più regole prefissate, si trasforma continuamente, si svolge per dinamismi formali.
In che modo è venuta configurarsi e come ha influito sull’esito finale del lavoro la tua collaborazione con il danzatore Gustavo Frigerio?
Stavo lavorando ad un progetto di “installazione ambientale”: il mio proposito era di trasferire una serie di segni e di disegni attraverso la luce ed il movimento in uno spazio tridimensionale; per questo avevo cominciato a lavorare su delle diapositive senza usare la macchina fotografica, operando direttamente cioè sulla pellicola, manualmente. Con un sistema di specchi oscillanti stavo sperimentando le possibilità, anche cromatiche, di movimento del segno luce nello spazio, nella fattispecie in un ambiente interamente bianco e necessariamente buio. Incontrai Gustavo Frigerio per caso: mi parlò a lungo dei suoi studi di danza negli Stati Uniti, io gli descrissi il lavoro che avevo intenzione di completare. Il suo interesse per il mio lavoro mi sembrò fin dal primo momento di natura straordinaria nel senso che per lui interesse significava letteralmente essere in mezzo a quei segni, muoversi fra di essi, ridisegnare figure su quelle già esistenti, in complicità o in lotta con esse. I primi movimenti di esplorazione di un corpo curioso, si fecero anche gesti di difesa, di aggressione: il corpo dopo la richiesta di riconoscimento lanciava una rete di significazioni attraverso la maturazione della conoscenza di uno spazio che, certo, gli preesisteva. Lo spazio cominciava a qualificarsi come territorio quasi cultuale ed io iniziavo a percepire il tempo di quest’opera come tempo diverso dal divenire uniforme, dal tempo corrente. Il corpo diventava misura delle cose che avevo inventato in quello spazio e delle stesse mie idee.
Quale rapporto si instaura nella pratica del tuo lavoro artistico tra il momento logico-analitico e quello intuitivo-soggettivistico? Ed in che modo tale problematica coinvolge anche il tuo lavoro di pittore?
Rispondo partendo dal secondo punto della tua domanda. La pittura occupa certo la parte più grande del mio tempo, ma produrre tracce diverse in diverse maniere, inventare oggetti, seguirne i movimenti nelle tre dimensioni non sono modi solo complementari nella mia produzione; non vi è conflitto aperto tra i modi della pittura e quelli di una pratica, per esempio, di scrittura o di media tecnologici. Ma tu mi chiedi soprattutto qual è il rapporto fra il momento analitico e quello intuitivo della creazione artistica. Per me il modo di procedere dell’arte non è lontano d a quello di qualsiasi altro atto di conoscenza; è un modo, sia pur speciale, di sopprimere la distanza che separa un oggetto dalla coscienza per confondersi con esso. Ma qui, come nell’atto d’amore, è il movimento dell’eros che ricongiunge le cose separate ed opposte.[/read]

Quiescente Obliqua. Performance, danza, Roma, Galleria d’Arte Moderna, 1981 [PE0004]